Un elogio del porco, tutto da gustare

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Anno: 1761, luogo: Castelvetro nel Ducato di Modena.

In pieno furore illuminista – nato dall’applicazione dell’indagine scientifica a tutti i rami della conoscenza che metteva così in discussione i principi dell’autorità e del dogma – un giovane “abatino” (così descritto per la fragilità fisica e i modi raffinati) scrive “Gli Elogi del Porco” una piccola ma pungente opera dedicata a magnificare, con l’elogio del porco, la figura dell’animale “di cui non si butta via niente”.

Giuseppe Ferrari (1720-1773), ecclesiastico per necessità economica di famiglia e membro dell’Accademia Ducale de Dissonanti di Modena, alla cura degli uffici religiosi preferisce una vita sociale e culturale molto animata e con importanti frequentazioni politiche e culturali.

Ferrari, amico di Carlo Goldoni, di altri illustri letterati e di filosofi del tempo, con i quali discute delle novità provenienti d’oltralpe dal “Signor Voltaire”, usando il nome di Tigrinto Bistonio – pseudonimo che gli deriva dall’Accademia citata; in un’altra accademia di Busseto è noto invece come Licon Lapizio – compone l’elogio del porco in versi berneschi (il genere di poesia rimata e improvvisata nata duecento anni prima da Francesco Berni).

La genesi dell’opera

Fin dall’età adolescente, attento osservatore delle cose del mondo, aveva notato come il porco venisse citato spesso in relazione a molte e diverse situazioni negative; quali, ad esempio, le giovani dame nei salotti che, dopo alcuni momenti di frequentazione maschile un po’ appartata, spesso sentiva esclamare: “Stia fermo porco! La finisca maiale!”. Questo uso di associare un animale onesto e rispettoso

“Parlo di te, mio rispettabil Porco Onor de la quadrupede famiglia, benché di fuori impiastricciato e sporco; che tu vivi alla buona, e senza briglia di moda e servitù, che tanto annoia, l’usanza tua di libertade è figlia”

ad atteggiamenti formalmente deprecati, gli sembra ingiusto. Così, prendendo spunto da un pranzo ufficiale in cui fu servito un cotechino straordinario, compone due poemetti che nelle sue intenzioni dovrebbero restare riservati ed invece vengono pubblicati dall’amico Carlo Antonio Giardini, che frequenta i suoi stessi ambienti illuministi, e che salva quest’opera per

offrirla ai dotti e saggi amadori della poetica novità”.

Giardini lo fa sperando che i lettori ne apprezzino la passione e il coraggio, vero e proprio “sdegno repubblicano” ante litteram, con cui l’autore combatte i preconcetti del Vecchio Regime nei confronti del nobile animale.

Alcuni versi memorabili

Il testo aulico, carico di figure retoriche, oggi si legge con un po’ di difficoltà per via dei continui riferimenti alla mitologia e alla storia antica; e anche per la sintassi dell’epoca. Ma sono senz’altro notevoli numerosi passaggi, per l’elogio del porco, tra i quali:

“A ogni figura accomodar ti sai, arrosto, fricandò, lesso, bragiole, e sempre piaci, e non disgusti mai”.

Per arrivare al “non plus ultra de la meraviglia / il cotichin”:

“Oh cotichin, null’altra a te somiglia in fragranza e in sapor vivanda eletta! Quando tu giungi inarca ognun le ciglia. I grati effluvi ad assorbire in fretta si spalancano i tubi ambi nasali, e un OH comune il godimento affretta”.

L’operetta, diffusa oralmente o in forma di manoscritto, non piacque a tutti, tanto che Ferrari ne compose subito “un seguito”, basato su riferimenti storici: circa trecento versi polemici contro un ignoto detrattore immaginario. Riprendendo, ad esempio, una possibile origine del nome “troia” intesa come femmina del maiale, l’autore parla di

“Porco trojan, perché ripieno / come il caval che trasse Ilio a mal’ora”.

Si pensa infatti che la femmina del maiale, spesso cucinata ripiena, sia stata chiamata troia” in riferimento alla città omerica che fu espugnata, appunto, con un cavallo “ripieno” di soldati greci. Passando all’attualità, l’autore fa un excursus sulla fortuna del maiale nella gastronomia internazionale; citando per la cucina francese il “cochon en galantine” e lo “jambon roti”, per quella tedesca il “westfalico prosciutto” e per quella italiana il “cervellato milanese”, il “firentin salame”, la “bondiola” e la “spalletta di Parma”, o (di nuovo!) il “cotichino di Modena”. E infine nomina la “mortadella di Bologna”,città “madre d’arti e d’eroi” celebrata per la sua “porchetta”, o meglio: “d’un porco una gentil figlia innocente”.

Alla stampa dei due poemetti, Ferrari/Bistonio sopravvisse solo dodici anni; speriamo allietati dalla compagnia delle squisitezze gastronomiche da lui cantate in versi. Oggi a Montale, frazione di Castelnuovo Rangone in provincia di Modena, un ristorante chiamato “Tigrinto Bistonio” propone un ricercato menù basato sul maiale.
Gli “Elogi” dell’abatino continuano, a tavola.

“Gli Elogi del Porco – Capitoli berneschi di Tigrinto Bistonio”
prima edizione 1761 in Modena per gli Eredi di Bartolomeo Soliani Stampatori Ducali. Ristampa dall’originale Edizioni Il Fiorino, 2004.

A cura de il NETWORK | testo Andrea Franchini | foto Corrado Bonora

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